Appunti di luglio, ovvero… Viaggiare in Paesi lontani, spaziare da cultura a cultura. Sognare paesaggi e città sconosciute. Questo luglio è stato così.
Gabo. Oh, Gabo. Quanto mi piace Gabriel Garcia Marquez, e quanto sono curiosa di sapere tutti gli aneddoti che fioriscono intorno alla sua figura e alle sue opere! Questa bellissima biografia scritta da Gerald Martin ed edita da Adelphi (ma si trova anche in edizione Mondadori) è davvero completa, appassionante e appassionata. Si sofferma molto sulle origini, che costituiscono le “radici” dei suoi tanti romanzi e racconti del grande scrittore colombiano, sul suo percorso di giornalista e sulla sua attività politica, ma non tralascia la storia del suo amore per la moglie Mercedes, il suo affetto per la nonna Tranquilina e per il nonno colonnello, così importanti nella sua formazione, e svela alcuni retroscena… dall’esegesi dei romanzi più famosi alla vincita del Nobel. Il volume è corredato da una serie di bellissime fotografie. Si legge come un romanzo.
Spostandoci dalla Colombia al Messico… imperdibile, a mio avviso, la raccolta di Josè Emilio Pacheco, poco conosciuto in Italia e scomparso nel 2014. Questa raccolta, pubblicata da Sur, è inedita nel nostro Paese ma è considerata, in patria, un classico.
“La sera, prima di addormentarsi, ascoltava il galoppo del vento sul campo di spighe”
Il vento distante raccoglie quattordici racconti molto densi e molto belli. Conoscete la sensazione che si prova accorgendosi di aver sbagliato nell’acquisto di un regalo? Oppure quella che si prova il primo giorno di scuola… quando tutto sembra strano, difficile, non si sa bene di chi fidarsi e ci si accorge con terrore di avere dei vestiti completamente diversi rispetto a quelli dei compagni? Ecco, i personaggi di Pacheco sembrano annaspare in questa sensazione, un misto di confusione, timidezza, timore, ma anche voglia di riscatto e improvvisi moti di coraggio. Sono racconti discretamente brevi, decisamente scorrevoli, che si allontanano un po’ da quell’immagine preconfezionata che forse molti di noi hanno del Messico. Mi sono piaciuti moltissimo e ho apprezzato molto le situazioni che vi sono delineate, alcune domestiche, altre surreali, molte intrise di nostalgia. Tutte splendide.
È il paese dove non si muore mai. Fortificati da interminabili ore passate a tavola, annaffiati dal raki, disinfettati dal peperoncino delle immancabili olive untuose, qui i corpi raggiungono una robustezza che sfida tutte le prove. Siamo in Albania, qui non si scherza.
Il paese dove non si muore mai , primo romanzo della scrittrice albanese Ornela Vorpsi, è stato, letteralmente, una scoperta. Mi è capitato per caso fra le mani e ho iniziato a leggerlo senza neppure sapere un accenno di trama.
La narrazione è affidata a più voci di donne, colte in momenti diversi nell’arco della vita. A dispetto delle poche pagine, è un libro intenso e denso di sensazioni. L’Albania raccontata è qualcosa di stranissimo che fonde concezioni ataviche e voglia di modernità. La dittatura, il caldo che fa stramazzare, i fiori che crescono selvaggi, la forza fisica delle persone, il maschilismo imperante, il sospetto nei confronti della bellezza, e tragedie familiari, in cui c’è quasi sempre lo zampino del Partito, le riviste italiane sfogliate di nascosto… E, sotto tutto questo, una clamorosa voglia di vivere e ribellarsi. Molto bello e suggestivo.
Non era il caso di pensare, né di provare dei sentimenti. Lucy smise di cercare di capire se stessa, e si unì alle vaste schiere degli ottenebrati, che non seguono né il cuore né il cervello, e marciano verso il loro destino sotto l’insegna di una parola d’ordine. Queste schiere sono gremite di persone caritatevoli e pie, che però si sono arrese all’unico nemico che conta veramente – il nemico interiore. Hanno peccato contro la passione e la verità, e ogni loro affannosa rincorsa d’una verità sarà vana. Col passare degli anni, diventano oggetto di critiche. La loro carità e la loro pietà mostrano delle crepe, il loro acume diviene cinismo, la loro generosità ipocrisia; dovunque vadano non producono che malessere. Hanno peccato contro Eros e contro Pallade Atena, e non sarà grazie a un intervento celeste, bensì grazie al normale corso della natura che quelle divinità alleate otterranno vendetta.
Mi ero fatta un’idea, riguardo a questo romanzo (sbagliata).
Pensavo fosse il resoconto di una gita in Italia da parte di una signorina inglese, di buona famiglia e con spocchia vendere.
L’Italia c’è, la signorina anche, la spocchia pure: ma è soprattutto un bellissimo romanzo all’ipocrisia e sull’impossibilità di mantenersi autentici.
Lucy Honeychurch, signorina inglese di buona famiglia, in vacanza a Firenze, incontra George Emerson, signore inglese di non altrettanto buona famiglia. L’ostacolo principale alla loro relazione sembra essere il perbenismo, che impone un certo codice di comportamento: codice che George infrange, mostrandosi sincero nelle sue simpatie e altrettanto sincero nelle sue antipatia, nei suoi gesti e nei suoi slanci. Lucy ripiega sul convenzionale e rispettabilissimo Cecil… Ma nella sua testa si insinua un pensiero disturbante… Che vivere una vita prestabilita e regolata da un desiderio che non sia il nostro stesso volere, non sia vivere come si deve.
Una trama non originale viene svolta da Forster con grande equilibrio e una buona dose di ironia (che qualche volta si sfuma di cinismo). Nell’immaginario inglese delle signorine di fine Ottocento, l’Italia era la zona geografica più vicina a Sodoma e Gomorra: un luogo ricco di arte e di storia, ma in cui era facile perdere il controllo dei sensi e della ragione, vuoi per certe tiepide primavere, la natura italiana appassionata, o per la sovraesposizione a statue di un nudo indecente (!). Consiglio caldamente la lettura di questo romanzo molto convenzionale a primo acchito e assai inusuale nel concetto: un bel viaggio alla ricerca del giusto compromesso fra ciò che ci chiede la società e ciò che ci chiede il cuore.
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